I retailer, in questa fase post pandemia, si trovano a operare in un contesto ricco di nuove sfide come il contingentamento degli accessi o la mancanza di fiducia dei consumatori nel tornare negli store. Entrambi incidono sulla riduzione dei flussi, obbligando i retailer ad accelerare sul fronte dell’omnicanalità.
L’esperienza d’acquisto diventa dunque più fluida e continua, i touchpoint si moltiplicano e si diversificano e può avvenire che un acquisto inizi online e si concluda in negozio o viceversa. Ne sono un esempio l’adozione del click&collect e dell’ecommerce che crescono a tassi vertiginosi.
La necessità di riportare i clienti nei punti di vendita fisici spingerà verso l’utilizzo della tecnologia bluetooth per rilevare le presenze in prossimità e inviare promozioni personalizzate in tempo reale. In questo contesto si colloca anche il neuromarketing che, allo studio delle azioni consapevoli, aggiunge la registrazione e l’analisi delle variazioni comportamentali inconsapevoli, basate per esempio sulla mappatura delle onde cerebrali o dell’eye-tracking.
È chiaro come l’evolversi di questa situazione generi un incremento dei dati disponibili per prendere decisioni in base ad analisi aggregate e personalizzare comunicazioni e servizi per ogni cliente.
Oltre agli indiscussi vantaggi, emergono delle complessità legate alla privacy. Si pone, infatti, il tema di tutelare e informare (seriamente) i cittadini sull’utilizzo dei dati ponendo limiti precisi alla conoscenza e all’acquisizione automatizzata degli stessi: dove e come vengono trattati? Da chi, e con quali garanzie?
La normativa impone “privacy by design” per la prevenzione dei rischi e “privacy by default” per il trattamento dei dati personali, nella misura necessaria e sufficiente per le finalità previste e per un periodo strettamente necessario ai fini. L’analisi dei big data generati dall’omnicanalità e dalle nuove tecnologie di tracciamento dei comportamenti si muove dunque in uno scenario normativo complesso, ponendo un’attenzione crescente verso sicurezza, limitazione del trattamento e trasparenza.
Parallelamente, secondo la ricerca “Retail Transformation 2.0” (Digital Transformation Institute e Cfmt), la maggioranza dei consumatori è consapevole dei benefici dell’acquisizione di dati da parte delle aziende, ma meno della metà ne conosce le potenzialità. In particolare, la personalizzazione dell’esperienza di acquisto è riconosciuta solo dal 15% degli intervistati. A fronte di un 29% di italiani che si sente a proprio agio a condividere i propri dati, c’è un 24% che percepisce la personalizzazione come un disagio causato dalla “sensazione di essere controllato e spiato” o dal fatto di non potersi “sottrarre alla pubblicità”.
Ci troviamo dunque in uno scenario ricco di sfide in cui i retailer devono bilanciare il trattamento dei big data tra normative sempre più stringenti, esigenze di digitalizzazione e atteggiamento ambivalente dei consumatori, spesso timorosi rispetto all’invasività, ma interessati a servizi e prodotti personalizzati.