I dati sono il nuovo petrolio nell’economia digitale. È un’affermazione che ricorre spesso e, in effetti, il mercato dei big data analytics in Italia vale 1,4 miliardi di euro e continua a crescere a ritmi serrati, superiori al 25%. Tuttavia la società di ricerca Gartner afferma che oltre il 60% dei progetti di big data non ha avuto successo nel generare insight “azionabili” dal business. “La vera differenza tra un progetto di successo e uno meno brillante – afferma Bernard Marr – è la strategia, non i dati; i dati sono solo una conseguenza”.
La maggior parte delle aziende si focalizza su volume e varietà: più dati, più tipi di dati, più fonti di dati. Ma i dati in quanto tali sono privi di significato, così come il loro volume. Al fine di migliorare i risultati di business, abbiamo bisogno di smart data per cui l’attenzione si sposta dal volume al valore. Gli smart data sono i big data trasformati in dati azionabili, disponibili in tempo reale.
Nell’ambito retail gli smart data aiutano a prevedere le tendenze emergenti, ingaggiare il cliente giusto al momento giusto, ridurre i costi di marketing e aumentare la qualità del servizio clienti. Per esempio, se guardiamo al mero volume saremmo portati a considerare qualunque interazione con il nostro servizio clienti, dati non strutturati e in formati diversi, dalle registrazioni audio, alle richieste testuali da form, log delle chat ecc. Ma qual è l’obiettivo? Quale strategia abbiamo per perseguirlo? Per identificare quali sono le problematiche ricorrenti o quelle più critiche, l’informazione smart di cui abbiamo bisogno sono i topic presenti in una determinata conversazione, che devono essere identificati grazie ad algoritmi di npl (natural language processing) e salvati in tempo reale come tag associati al contenuto. Con queste informazioni smart è possibile ottimizzare i canali di supporto, aumentando le informazioni disponibili per l’utente finale rispetto alle problematiche più frequenti, istruire meglio gli operatori del customer service e i chatbot.
Guardando invece al mondo dell’ecommerce, l’algoritmo del motore di raccomandazione di Amazon si basa sulla cronologia degli acquisti di un utente, sugli articoli già presenti nel carrello, sugli articoli che sono stati valutati in passato e su ciò che altri clienti hanno visualizzato o acquistato di recente: pochissimi data point rispetto a tutti quelli ai quali ha accesso il retailer, ma sufficienti a risolvere il problema della “coda lunga”, consigliando gli articoli che non vengono frequentemente cercati e quindi non generano entrate. Secondo un recente report di McKinsey, oltre il 35% di tutte le vendite del colosso sono generate dal suo motore di raccomandazione. Pochi dati, per il massimo risultato di business.
I dati richiedono tempo e denaro per essere archiviati, organizzati e governati, per questo è fondamentale spostarsi verso gli smart data: informazioni selezionate consapevolmente con l’obiettivo di individuare insight significativi.