L’utilizzo responsabile, efficiente e trasparente dei dati di prima parte – i dati sul comportamento dei consumatori che vengono generati mentre gli utenti navigano su siti web ed ecommerce, utilizzano app e partecipano a loyalty program, concorsi, giochi e sondaggi – permette alle aziende di aumentare vendite e ricavi e agli utenti/clienti di migliorare la customer experience.
È quanto emerge da “Responsible marketing with first-party data”, il report di Boston Consulting Group commissionato da Google e realizzato attraverso più di 70 interviste con responsabili d’aziende dei settori automotive, consumer products, telco e media, viaggi e tempo libero, servizi finanziari e retail in 7 paesi europei (Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Italia, Paesi Bassi, Svezia).
I dati qualitativi, che sono stati incrociati con quelli di un’ulteriore analisi di Bcg sul livello di maturità del marketing digitale delle aziende (“European digital marketing maturity benchmarking”) evidenziano che le aziende che collegano tutte le proprie fonti di first-party data possono raddoppiare le entrate incrementali provenienti dal posizionamento, comunicazione o divulgazione di un singolo annuncio e migliorare di 1,5 volte l’efficienza in termini di costi rispetto alle aziende che integrano parzialmente tali dati.
Inoltre, grazie alla migliore comprensione del target le imprese sono in grado di accrescere il costo per azione (cpa) di oltre il 25%. Tuttavia, mentre 9 intervistati su 10 affermano che i dati di prima mano sono importanti per i programmi di marketing digitale, solo il 30% circa delle aziende utilizza metodi avanzati come la single-customer view, il life cycle marketing o la previsione dei consumer trend.
Ciò è dovuto principalmente al fatto che la maggior parte delle aziende non ha raggiunto la piena maturità digitale: il 63%, infatti, appartiene alla categoria “emerging”, cioè si serve dei dati ma solo in modo parziale e senza integrazione dei canali; il 31% rientra nella categoria “connected”, e integra i dati provenienti dai canali digitali, il 5% al grado di maturità “nascent”, cioè utilizza per le proprie campagne principalmente dati esterni che sono collegati in maniera limitata ai processi di vendita, e solo l’1% è al livello “multimoment” e ottimizza tutti i dati del customer journey lungo i vari touchpoint.
L’utilizzo più o meno efficace dei dati di prima mano dipende anche dai settori produttivi: costruttori di automobili o produttori di beni di largo consumo, per esempio, non sono soliti avere interazioni dirette con i propri clienti e spesso si affidano ai propri partner nel retail per ottenere dati sulla propria clientela. Altri ostacoli all’utilizzo dei dati proprietari sono rappresentati dai silos interni – molte aziende usano i dati proprietari per attività specifiche come la gestione del rischio (banche) o la previsione di abbandono (telco) ma non li rendono disponibili per un uso più ampio – e dal timore che la richiesta di consenso o le iniziative e le comunicazioni mirate a ottenere informazioni possano allontanare i consumatori sensibili al tema della privacy.
A tale proposito l’indagine sottolinea come sia importante adottare il paradigma della “Responsibility imperative”, ossia utilizzare i dati in modo responsabile e rendere visibili i propri sforzi ai clienti che dovrebbero, in cambio dei dati forniti, poter beneficiare di un’esperienza migliore, ottenere informazioni e servizi utili, ricevere assistenza e offerte personalizzate.
Si tratta di uno scambio di valore “bidirezionale”, che le aziende possono ottenere concentrandosi in 3 principali aree tecnologiche: unire i dati offline e online in un data warehouse centralizzato su cloud, per combinare i dati senza soluzione di continuità e approfondire la conoscenza dei propri clienti; migliorare i valori di corrispondenza tra i set di dati, conducendo a una visione univoca del cliente grazie alla quale sia possibile fornire comunicazioni e incentivi pertinenti; servirsi di modelli di misurazione o algoritmi proprietari per fornire il messaggio giusto, al momento giusto, al cliente giusto.
Tra i fattori organizzativi più rilevanti, infine, vi sono l’assunzione di nuovi ruoli come il chief data officer, per garantire la responsabilità nella gestione dei dati e aiutare l’azienda ad applicarli; portare in azienda competenze specialistiche, come data scientist e cloud engineer, e istituire partnership con società tecnologiche e di analisi esterne all’azienda.